Finita la bufera del Vinitaly, torniamo stremati ai nostri borghi sperduti e ripiombiamo nei soliti discorsi che si ripetono uguali in tutte le terre dei grandi vini italiani; in Valdorcia, nelle Langhe o nella Valpolicella, è ovunque la stessa minestra. Chiude il verduraio, e subito noi “indigeni” iniziamo a piangere; i nostri paesi sono morti, ci sono solo enoteche, non c’è più un buco dove si vendano mutande, tutto è carissimo e non si trova un parcheggio. Abbiamo perso l‘anima, ci sono solo villani arricchiti col SUV! Altri sono più “ottimisti”; sì, è stato fatto tanto, ma quante cose mancano. Non bastasse, tra gli “esperti” che si occupano di noi qualcuno si lamenta di una classe imprenditoriale impreparata, “rustica” e incapace di progetti di ampio respiro.
Mah, è evidente che siamo tra le terre più belle, vitali e ricche d’Italia, e basta il duraturo successo di Brunello, Barolo e Amarone a dimostrare che queste critiche sono ingiuste; comunità scombinate di gente dappoco non sarebbero mai riuscite a portarli nel mondo, e figuriamoci farli durare. E allora perché proprio chi ci è più vicino ci vede così? Perché non è facile capire davvero ciò che siamo diventati, anche per noi. E, quel che è peggio, siamo prigionieri di una sfilza di stereotipi. Ad esempio, anche se produciamo vini di eccellenza assoluta e competiamo con successo in tutto il mondo, molti pensano che siamo per lo più simpatici villani con le scarpe grosse e il cervello fino, annoiati aristocratici in tweed o fuggiaschi dalla città alla ricerca di loro stessi tra le vigne; ridicolo, come quando si credeva che dei dilettanti potessero vincere le Olimpiadi.
Si pensa che in questi borghi fatati la vita scorra placida, sonnolenta, e non cambi mai nulla. No, è la campagna impoverita qui intorno ad essere così, e infatti è campagna impoverita. Noi siamo altro, siamo quelle comunità speciali che hanno imposto al mondo un grande vino. Per ottenere una cosa simile non bastano uva, clima e territorio, altrimenti tutte le centinaia di posti vocati d’Italia venderebbero milioni di bottiglie a prezzi alti. Un Grande Vino è frutto della cultura, della storia e delle tradizioni di una comunità. È cultura perché per inventarsi una sintesi di successo tra la vocazione di un territorio e ciò che vorrà il mercato ci vuole tanta cultura. È storia condivisa, perché per affinare la tecnica ideale ci vogliono decenni (o secoli), e se ogni generazione riparte da zero non si arriva mai. È tradizione perché nel vino molte cose non si trovano nei manuali, si passano da persona a persona.
Per avere un successo mondiale tutte queste cose devono confluire in una comunità che sappia gestire i cambiamenti, salvaguardare la sua identità e rialzarsi dopo le crisi, perché prima o poi qualche tegola sul capo ti cade. Quante ce n’è di comunità così, e che siano anche in luoghi dove la natura regala grandi vini? Pochissime. E infatti i vini noti nel mondo sono pochissimi. Così non vi lamentate se nei nostri paesi ricchi, vitali e che danno tante possibilità ai giovani non si può più comprare un buon cesto di insalata o un paio di mutande; una comunità “vera” non è il posto con tante botteghe per chi ci vive e ci lavora e dove poi ci si trova a giocare a briscola. Quello è un centro commerciale con annesso dopolavoro.
Una comunità “vera” è quella che ha elaborato un proprio modello sociale, economico e culturale vitale, che ha un’identità forte, che dà benessere ai suoi, che integra chiunque senza perdere se stessa e sa offrire un futuro sostenibile ai suoi giovani. Questo siamo noi. E se mi tocca andare a comprare le zucchine con la macchina qualche chilometro più in la, tanti saluti ai ravanelli; io mi tengo il Brunello.
di Stefano Cinelli Colombini
pubblicato su Intravino, 5 maggio 2018